Anime in Volo

La magia era di nuovo lì sotto i miei occhi. Il latte fresco e “pannoso” preso il giorno prima in
latteria stava lavorando sodo nella ciotola di coccio, bagnando il riso soffiato e rendendolo
dolcissimo e gustoso. Niente zucchero, per carità. Il suono che produceva era ammaliante. Ma
bastavano pochi giri di cucchiaio e via, la magia era sparita. In pancia. Colazione fatta!
Solo allora mi accorsi che il cassonato di Zio Vincenzo era in arrivo. Scodellava rumori qua e la, gli
attrezzi che sobbalzavano ad ogni asperità della strada, salendo per il Rio; e quando arrivava
all’ultima curva vicino casa dei nonni era festa. Si andava finalmente a lavorare nei campi!
L’alba di Agosto in montagna è un regalo per pochi, figuriamoci per un paffutello di 10 anni, nato
tra i palazzi di città. Eppure si andava a faticare, mica da scherzarci su.
Zio Vincenzo mi aveva convinto facilmente la sera prima, quando davanti a un bicchiere di vino
rosso (per lui) e ad uno di limonata fresca (per me) disse:
“Ehi piccoletto! Ho bisogno di due braccia forti domattina, si va a fare provviste per la Bionda! Mi
dai una mano tu?”.
La “Bionda” in questione non era un’avvenente turista dai tratti scandinavi, ma era la mucca color
miele che stazionava nella stalla degli zii e con la quale avevo già instaurato un bel rapporto fatto di
carezze e di scodate sui polpacci. Era una piacere vederla mungere, quell’odore forte del fieno
misto a urina e panna fresca era inebriante. Sì, ovvio, qualche conato ogni tanto, pancia sottosopra.
Ma passava subito!
Se la Bionda chiedeva fieno, si doveva andare! I miei genitori erano ben felici di farmi assaporare la
campagna d’altura. Mille metri di aria fresca e ancora pulita: in pochi sapevano che sarebbe
diventata una rarità, di li a qualche ora.
Durante il lavoro nei campi mi sembrò di aver caricato centomila migliaia di quintali di fieno! Le
gambe e le braccia mi sembravano diventate marmo, eppure la mattina passò velocemente. Zio
Vincenzo infatti mi prese sotto le ascelle e mi caricò a sedere sul cassonato:
“Ora ti tocca riposare, hai fatto un gran lavoro. Bevi e stai lì che più tardi mi servirai ancora. Te la
senti di volare? – mi disse mentre i miei occhi si spalancavano fino all’infinito.
“Dovrei… beh…- presi tempo – penso dovrei chiedere almeno un permesso a mamma e papà…
non ho mai volato prima e…”.
Le grasse risate di Vincenzo risuonarono nella valle, che stava riposando placida e pacata nel suo
verde acceso.
“Tranquillo vecchio Dan! – disse mentre riprendeva a lavorare di forcone – sarà un volo a bassa
quota e non più lungo di 10 minuti! Ora torniamo a casa tua e chiediamo il permesso ai tuoi
genitori.”
L’acqua del ruscello era ancora fresca in borraccia, mentre la gustavo nel breve tragitto di rientro
sognavo già la prossima avventura. Zio alla guida del trattore mi aveva spiegato che saremmo
andati a portare le vivande fresche dell’orto al padiglione del grande ospedale che sovrastava le
teste di tutti gli abitanti da ormai quasi 70 anni. Era un puzzle di sanità e cure, incastonato su una
groppa di montagna verde come è verde uno smeraldo. Mamma e papà ovviamente furono felici di
vedermi così impegnato nell’operosa civiltà della montagna. Sapeva di vita.
Non era ancora mezzogiorno quando il cassonato di Zio aveva raccolto una decina di cassette di
tesori dell’orto e del frutteto. Insalate, pomodori, patate, prugne e chissà cos’altro al quale non
sapevo neanche dare un nome. L’ospedale era in cima alla salita ripida del paese, una strada tutte
curve dolci ma cariche di storia e di vite vissute, anche di tante vite finite purtroppo.
Il piccolo avamposto che sanciva l’entrata dell’ospedale aveva una guardiola e il buon Alfio era lì
dentro ad aspettarci. Era un tuttofare, amico d’infanzia di Zio, che al mattino si occupava anche
della Ballerina! Devo spiegare: la Ballerina, non era una pin up americana uscita dalle proiezioni
del cinema muto. Tutt’altro. Era la cabina della teleferica, mostro di modernità in mezzo a tanta
natura, ma utilissimo per traghettare merci e vivande dall’ingresso dell’ospedale sino al padiglione
più alto, dove la strada si faceva più impervia, ma dove l’aria toccava vette di purezza ineguali
altrove.
Il volo dunque iniziò quasi subito: scaricate le cassette e messe ben impilate sul pianale della
cabina, non restò che attendere la chiusura dei battenti. Fu il loro rumore secco a dirmi che
l’avventura stava iniziando. E il docile motore elettrico prese a frignare nell’aria, a volte sibilando
come una fiondata, altre strisciando come la mano di un bambino accarezza il folto pelo di una gatta
salottiera.
Poi il primo traliccio: lo vedevo arrivarci incontro dal grande finestrone che guardava verso la cima
della montagna. Fu lì che osai chiedere l’arcano:
“Zio, ma perché questa cabina la chiamano Ballerina?”.
“Perché Ballerina? Beh perché… perché…” – le pause di Zio Vincenzo mi portarono
all’eccitazione più pura. Tanto in preda alla suspense che non mi accorsi nemmeno del festoso
dondolio al quale stavo partecipando dentro la cabina. Le poderose funi ora “scarrellavano”
allegramente sul traliccio portante, facendo danzare un po’ la cabina e creando quella sensazione
fantastica di pancia sottosopra che solo a dieci anni di vita sembra sempre una festa. Dopo no, da
adulto è solo nausea e vomito incipiente.
“Ed ecco perché la chiamiamo Ballerina!” – prese a ridere Zio mentre mi aggrappavo con più forza
al maniglione. Ricordo ancora quegli occhi grandi, stanchi ma carichi di vita che si trovavano a
meraviglia su due zigomi tondi e tosti, rossi di buon vino e di sole d’alta quota. Li ricordo ancora e
ricordo come in un lampo si accesero di stupore e di amara consapevolezza.
Un boato. Tremendo. Un tremore, leggero. Dal finestrone che incorniciava la vista più bella che
avessi mai veduto prima, vedemmo accendersi il buio. Il sole bello e pacioso che solo un attimo
prima scaldava la lamiera della cabina, ora si scansava al turbine di polvere e terra che, un secondo
dopo il boato, vedemmo calare giù dal canalone dell’Alta Valle.
La frana che gli occhi di Zio Vincenzo videro era scivolata sul costone della grande montagna come
una biglia nella pista di sabbia marina. Aveva tramortito il paese confinante col nostro, le sue vite,
le sue battaglie, le bestie, le baite, le voci, le speranze, la chiesa ed il bar. Tutto volato via senza
motivo, senza un preavviso, senza un perché. La nostra cabina salì ancora più lentamente, coprendo
pochi metri di tragitto in cent’anni senza tempo. Io mi giravo da ogni lato, cercando un segno, una
canzone, una pubblicità, che mi facesse distrarre da quell’apocalisse.
“Mio Dio perché… Mio Signore perché… Mio Dio perché…” – ripeteva all’infinito Zio, accanto a
me come baluardo di un mondo perduto e scudo di quello che sarebbe rinato.
Centinaia di anime presero a volare. Noi ora fermi, loro pronti a raggiungerci al padiglione. Grazie
a un volo in teleferica. Un volo di morte e di ricordi svaniti nel ruggito di un boato. E di quei dieci
anni che purtroppo… per fortuna, non avrò più.

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